Dirty life.. why not?


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"La prima volta che vidi Mark fu nella roulotte scassata che era l’ufficio della fattoria e casa sua. Venivo da Manhattan e mi ero fatta sei ore in macchina per intervistarlo nell’ambito del reportage che stavo scrivendo sui giovani agricoltori che producevano cibo biologico, sempre più richiesto. Bussai alla porta proprio mentre, come scoprii in seguito, schiacciava il sonnellino pomeridiano. Poiché non rispondeva nessuno, entrai in cucina, chiamai ad alta voce e dopo un minuto si spalancò la porta della camera da letto e Mark ne uscì a grandi passi allacciandosi la cinta dei pantaloni. Alto com’è, veniva verso di me spinto dalle lunghe leve delle gambe con uno strano passo, aggraziato ma deciso. Portava stivali di pelle consumati, blue jeans stinti sulle cosce e una camicia bianca in uno stato pietoso. Notai i vivaci occhi verdi, un naso importante e perfetto, la barba di due giorni e una criniera di riccioli d’oro. Grandi mani callose, avambracci guizzanti di muscoli con grosse vene blu. Sorrise: denti bellissimi. Profumava di pelle tiepida, gasolio e terra. 

Si presentò, mi strinse la mano e poi se ne andò all’improvviso, richiamato da qualche impegno urgente nei campi, e mentre chiudeva energicamente la zanzariera dietro di sé mi promise da sopra la spalla che mi avrebbe dato l’intervista quella sera, al suo ritorno. Nel frattempo, avrei potuto zappare i broccoli con Keena, la sua collaboratrice. Più tardi registrai sul mio taccuino due appunti diversi. Primo: Ecco un uomo. Gli uomini che conoscevo io usavano solo la testa. Questo qui viveva con tutto il corpo. Secondo: Possibile che mi sono fatta tutti quei chilometri per zappare i broccoli di questo tizio? La prima sera, invece di lavorare con lui all’intervista, lo aiutai a macellare un maiale. Ero vegetariana ormai da tredici anni, e avevo addosso una camicetta nuova di agnès b., bianca, Mark però aveva bisogno di aiuto e stare nella sua fattoria senza darsi da fare era una cosa contro natura, come tuffarsi in un lago e non nuotare. Non avevo mai visto un animale macellato prima di allora, e non riuscii a guardare nel momento in cui Mark uccise il maiale sparandogli un colpo: era una scrofa a macchie bianche e nere che si chiamava Butch, del tutto simile ai porcellini dei libri per bambini. Quando cadde stecchita, io mi ripresi. Aiutai a sollevare il corpo e ad appenderlo a un gancio perché per sviscerare la carcassa si doveva incidere il corpo dallo sterno alla pancia e io afferrai ai lati la cavità fumante e la tenni aperta mentre Mark estraeva gli organi interni tagliando le parti che li tenevano ancorati al corpo. Non mi fece schifo quello che stavamo facendo, anzi mi diede allegria. Fui affascinata dalla sacca soda e bianca dello stomaco, dall’elegante groviglio dell’intestino, dal merletto avorio dell’omento e dal cuore ancora pieno di vita. 

Dopo aver tagliato in due la carcassa, la caricammo su un carretto per portarla in una cella frigorifera a due passi dalla strada. A un centinaio di metri da lì c’era un quartiere di villini pretenziosi con piccoli giardini: prati all’inglese ben tosati sul davanti e vasi di gerani per abbellire i vialetti d’accesso al garage. Nella luce del crepuscolo Mark si caricò sulla spalla mezzo animale, ormai senza testa. Era un corpo privo di vita: grosso, pesante e scomodo da trasportare, proprio come in tv. Io tenevo in mano le scivolose zampe posteriori per bloccarle e aiutai Mark a portare il maiale nella cella frigorifera e ad appenderlo a un gancio che pendeva dal soffitto. Le macchine che sfrecciavano per la strada avevano già i fari accesi e nelle case di fronte si iniziavano a vedere le prime luci. Se ci avesse visto qualcuno, mi domandai, avrebbe chiamato la polizia?

Quella notte dormii in un albergo del paese e mi tolsi di dosso il grasso del maiale in una stanza da bagno dall’aria esageratamente bianca e disinfettata. Mi sentivo come se fossi tornata da un lungo viaggio in un paese molto lontano. La mattina dopo mi alzai all’alba e ritornai alla fattoria. La truppa di Mark stava facendo colazione tutta insieme: crespelle di mais e salsicce fatte in casa spruzzate di sciroppo d’acero tiepido. Mangiai una doppia porzione di salsicce, e così finì la mia vita vegetariana. Mark scomparve di nuovo subito dopo colazione, con il maiale dietro un pick-up preso in prestito, diretto alla macelleria dei suoi amici Amish. Disse che sarebbe ritornato nel pomeriggio e che allora avremmo potuto fare un’intervista come si deve. Nel frattempo, avrei potuto togliere i sassi nel campo di pomodori, insieme a Michael, un altro dei suoi collaboratori. 

Michael non era molto ottimista riguardo le mie capacità lavorative. Avevo sostituito la camicetta bianca con una T-shirt vintage Cheap Trick, jeans aderenti e un paio di Dingos di seconda mano con tacchi bassi e grossi. Vale a dire il tipico abbigliamento ironico-chic che funzionava benissimo nell’East Village ma che era strano e leggermente volgare nelle campagne della Pennsylvania. Mi consideravo in splendida forma fisica e mi autodefinivo forte per la mia taglia, un metro e cinquantotto scarso compresi i tacchi delle Dingos, anche se l’allenamento più serio e costante che facevo all’epoca era giocare a flipper. Ero già indolenzita dagli sforzi del giorno prima, ma per mia disgrazia sono fortemente competitiva sul piano fisico pur senza averne il minimo motivo. Ho ereditato questa caratteristica da mio padre, che, per fare un esempio, a settantatré anni si è strappato un tendine del ginocchio pretendendo di cimentarsi nella partenza in piedi dal pontile durante una lezione sci nautico. 

Michael mi diede un rastrello a denti rigidi, e ci avviammo verso i solchi lì vicino. La Penn State University è proprio in fondo alla strada, e Michael, che aveva studiato cinema, si era laureato quella primavera. Iniziò ad andare nella fattoria di Mark come volontario nei weekend per vedere, mi spiegò, se il lavoro manuale lo avrebbe fatto diventare un uomo. Una volta laureato, Mark lo aveva assunto a tempo pieno. Il padre di Michael, commercialista, e la sua ragazza, che si era iscritta a Legge, avevano entrambi un’idea molto vaga della campagna e speravano con tutto il cuore che Michael finisse presto di sfogarsi. Per nascondere la mancanza di fiato, gli chiesi moltissime cose e cercai ogni possibile scusa per appoggiarmi al rastrello nella posa di uno che sta ascoltando attentamente. Il sole di luglio picchiava sul viso e sollevava tutt’intorno l’odore acre e resinoso dei pomodori. Le piante erano cariche di frutti e alte come me e stavano in piedi grazie a tutori di quercia a cui erano legate con lo spago. Per una persona abituata a non far crescere altro che qualche pianta aromatica in una cassettina sul davanzale della finestra, avevano un’aria vagamente minacciosa. Il terreno fra i solchi era riarso e irregolare, tutto pieno di sassi. Michael mi disse di non prendere in considerazione le pietre più piccole di un uovo e di rastrellare le altre, farne dei mucchietti e poi spalare questi sassi nella carriola e scaricare il contenuto lungo la siepe. Rimasi sconvolta da peso di ogni palata di sassi, e la prima volta rovesciai tutto il contenuto della carriola. Rastrella, spala, scarica. Passai in questo modo due ore interminabili, finché mi resi conto che se fossi andata avanti ancora un po’ non avrei mosso più un muscolo e non sarei riuscita nemmeno a spingere la frizione per guidare fino a casa. Disperata, mi offrii di andare a cucinare per tutti. Lo dissi con l’aria più disinvolta possibile. Quasi non riuscivo a credere alla quantità di danni che mi ero inflitta in così poco tempo. Mi stavano venendo le vesciche fra il pollice e l’indice della mano sinistra, non riuscivo a stendere del tutto la schiena, e il cavallo dei pantaloni, intrappolato nei jeans troppo stretti, mi aveva irritato la pelle in modo insopportabile. 

All’epoca non ero una gran cuoca. Mi piaceva mangiare bene, ma non avevo un rapporto stabile con il cibo. Cibo per me significava una serie di fugaci avventure sentimentali che iniziavano al ristorante con qualcuno, o arrivavano a domicilio in scatole di cartone consegnate da un tizio in bicicletta. Non avrei saputo dire con certezza se il forno di casa mia funzionava, perché in sette anni non lo avevo mai usato. Il frigorifero funzionava, ma nel mio minuscolo appartamento era più utile come sgabuzzino che come elettrodomestico da cucina. Ci tenevo le scatolette del cane, una caraffa Brita per l’acqua e, avendo pochissimo spazio per i libri, l’elenco telefonico di Manhattan, che nel mio ricordo di quegli anni era sempre pesantissimo e freddo. Nel freezer avevo vecchi cubetti di ghiaccio e una bottiglia di vodka polacca. La cucina di Mark occupava la metà della roulotte e mi faceva pensare a un mercato del Terzo Mondo. Traboccava di cose colorate e prive di confezione, c’era odore di latte, carne, terra e verdure tutto mischiato insieme in un profumo di campagna forte e niente affatto sgradevole. Aprii gli sportelli, perlustrando con cautela gli scaffali più in alto. Negli armadi c’erano vasi da un gallone che contenevano fagioli neri e mele disidratate, chicchi di grano e di segale e piccole pannocchie di mais secche. Nella credenza sopra ai fornelli c’erano mazzi di erbe aromatiche e bottiglie senza etichetta di un imprecisato liquido frizzante color ambra. Aprii il frigorifero e vidi una pentola senza coperchio piena fino all’orlo di qualcosa di morbido e sanguinolento che riconobbi come gli organi interni di Butch, e un cestello di metallo pieno di uova striate di marrone. Nello scomparto per frutta e verdura c’erano barattoli Ball di burro e fiocchi di latte, una piramide di cose che sembravano palline da golf e avrebbero potuto essere rape, e qualche carota, tutto non lavato. Chiusi rapidamente lo sportello del frigorifero e, afferrati un canestro e un coltello, ritornai nel campo dove Michael aveva finito di rastrellare i sassi e ora pacciamava i solchi con paglia semi-fradicia. Guardai tutto il cibo pronto da raccogliere. Patate novelle, broccoli, lattuga, erbe aromatiche, piselli, barbabietole e more. Una mucca brucava il prato con il suo vitello, le galline beccavano gli avanzi da una parte, un altro maiale grufolava in un mucchio di foglie secche. Dovunque posassi lo sguardo c’era da mangiare in abbondanza.

Sentii dei pensieri muoversi nella mia testa, immensi e lentissimi, come la tettonica a placche. Era un terreno di soli sei acri, le dimensioni di un grosso parco giochi per bambini, ma c’era verdura per duecento famiglie. Sembrava tutto molto più semplice di quanto avessi immaginato. Terra più acqua più sole più sudore uguale cibo. Non servivano fabbriche, né troppe macchine, non c’era bisogno di veleni o di fertilizzanti chimici. Com’era possibile che tutto questo ben di Dio fosse sempre esistito e io non me ne fossi mai accorta?"

Kristin Kimball "Dirty Life. Una storia d’amore, cibo e animali"
www.kristinkimball.com

Carino, molto carino. Ma: “Terra più acqua più sole più sudore uguale cibo.” non è del tutto vero. Direi piuttosto: “Terra + acqua + sole + sudore + macchine varie = cibo”, e in macchine varie ci vanno i sistemi di irragazione, i trattori, gli attrezzi, la roulotte, il pickup, la corrente elettrica, l’ospedale, la strada.. Per questo viviamo in società: il lavoro di ognuno facilita la vita di tutti. Non per questo non mi piacerebbe auto-produrmi un po' di cibo o avere degli animali, ma di certo non si può pensare di vivere in modalità “stand-alone”, non a questo prezzo almeno.  Infine, non si vive di solo cibo... no?

Thanks to Carolina

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